Romani 7 | La legge condanna ma Cristo Libera #8 | Samuel Simoni

 

Romani 7

1 O ignorate forse, fratelli (poiché parlo a persone che hanno conoscenza della legge), che la legge ha potere sull’uomo per tutto il tempo che egli vive? 2 Infatti la donna sposata è legata per legge al marito mentre egli vive; ma se il marito muore, è sciolta dalla legge che la lega al marito. 3 Perciò, se lei diventa moglie di un altro uomo mentre il marito vive, sarà chiamata adultera; ma se il marito muore, ella è libera da quella legge; così non è adultera se diventa moglie di un altro uomo. 4 Così, fratelli miei, anche voi siete stati messi a morte quanto alla legge mediante il corpo di Cristo, per appartenere a un altro, cioè a colui che è risuscitato dai morti, affinché portiamo frutto a Dio. 5 Infatti, mentre eravamo nella carne, le passioni peccaminose, risvegliate dalla legge, agivano nelle nostre membra allo scopo di portare frutto per la morte; 6 ma ora siamo stati sciolti dai legami della legge, essendo morti a quella che ci teneva soggetti, per servire nel nuovo regime dello Spirito e non in quello vecchio della lettera.

7 Che cosa diremo dunque? La legge è peccato? No di certo! Anzi, io non avrei conosciuto il peccato se non per mezzo della legge; poiché non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: «Non concupire». 8 Ma il peccato, còlta l’occasione per mezzo del comandamento, produsse in me ogni concupiscenza; perché senza la legge il peccato è morto. 9 Un tempo io vivevo senza legge; ma, venuto il comandamento, il peccato prese vita e io morii; 10 e il comandamento, che avrebbe dovuto darmi vita, risultò che mi condannava a morte. 11 Perché il peccato, còlta l’occasione per mezzo del comandamento, mi trasse in inganno e, per mezzo di esso, mi uccise. 12 Così la legge è santa, e il comandamento è santo, giusto e buono. 13 Ciò che è buono diventò dunque per me morte? No di certo! È invece il peccato che mi è diventato morte, perché si rivelasse come peccato, causandomi la morte mediante ciò che è buono; affinché, per mezzo del comandamento, il peccato diventasse estremamente peccante.

14 Sappiamo infatti che la legge è spirituale; ma io sono carnale, venduto schiavo al peccato. 15 Poiché ciò che faccio io non lo capisco: infatti non faccio quello che voglio, ma faccio quello che odio. 16 Ora, se faccio quello che non voglio, ammetto che la legge è buona; 17 allora non sono più io che lo faccio, ma è il peccato che abita in me. 18 Difatti io so che in me, cioè nella mia carne, non abita alcun bene; poiché in me si trova il volere, ma il modo di compiere il bene, no. 19 Infatti il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio. 20 Ora, se io faccio ciò che non voglio, non sono più io che lo compio, ma è il peccato che abita in me. 21 Mi trovo dunque sotto questa legge: quando voglio fare il bene, il male si trova in me. 22 Infatti io mi compiaccio della legge di Dio, secondo l’uomo interiore, 23 ma vedo un’altra legge nelle mie membra, che combatte contro la legge della mia mente e mi rende prigioniero della legge del peccato che è nelle mie membra. 24 Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? 25 Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore. Così, dunque, io con la mente servo la legge di Dio, ma con la carne la legge del peccato.

 

 

La volta scorsa, parlando del capitolo sei, abbiamo visto che noi siamo stati uniti a Cristo nella sua morte e nella sua risurrezione e che, essendo morti al peccato, siamo stati liberati da esso. Quindi il peccato non detta più il nostro stile di vita e la condotta generale che adottiamo. In questo settimo capitolo, Paolo prosegue il suo discorso in un modo estremamente coerente, perché dopo aver affrontato il tema del peccato, parla della legge.

Dal versetto 1 al versetto 6, Paolo ci dice che se siamo morti con Cristo e siamo risorti con lui, siamo anche morti, in un certo senso, alla legge. Paolo usa l’illustrazione del matrimonio, il quale finisce con la morte di uno dei due coniugi, o di entrambi. Quindi Paolo usa questa analogia per farci capire ancora una volta che noi, in Cristo, non dobbiamo più ricercare una giustificazione mediante la legge, perché, essendo morti con lui, siamo stati separati dalla legge. E noi non siamo padroni di noi stessi, ma apparteniamo a Cristo essendo uniti a lui e separati dalla legge.

Infatti, la morte non è solo morte fisica: quando Paolo parla di morte, intende separazione; intende interruzione di una relazione o interruzione di un rapporto spirituale. E quindi, come la morte separa due coniugi, noi siamo separati dalla legge nel senso che non dobbiamo rifarci al sistema della legge per in qualche modo essere graditi a Dio o, se fosse possibile, essere giustificati. Quindi non viviamo più per la legge, sforzandoci di applicarla, ma viviamo per Cristo il quale è il termine della legge e il suo adempimento.

Al versetto 5, Paolo prosegue dicendo che questa legge risveglia in noi le passioni peccaminose. E quindi, constatando questo fatto domanda in un modo retorico, se la legge sia peccato.

Ovviamente, al versetto 7, Paolo risponde: “no, di certo”, perché la legge è santa, giusta e buona, come il suo legislatore. Ma quindi che ruolo ha la legge se attraverso la legge il peccato acquista forza?

La legge ha lo scopo di farmi comprendere la mia condizione di peccatore, perché quando guardo alla legge, quando guardo ai dieci comandamenti, quando guardo alla legge morale dentro di me di Romani capitolo 2, allora mi accorgo che non riesco ad attenermi a questa legge, ma che anzi provoca in me l’emergere del peccato. Infatti la legge denuncia il peccato, ma non trasforma vite, non perché non sia buona, ma perché noi non siamo in grado di ottemperarla.

Pensa a quando ti sei proposto di non fare qualcosa: “Non voglio più arrabbiarmi”, “Non voglio giudicare”, “Non voglio cadere in quel pensiero”. Eppure, più lo dici a te stesso, più ti scopri debole. La legge funziona come una lente d’ingrandimento che fa emergere quello che è dentro di noi. E allora la domanda è: cosa ne faccio di questa consapevolezza? Mi abbatto? o corro a Cristo?

Paolo, dal versetto 7 al versetto 13, ispirato dallo Spirito Santo, utilizza questa geniale illustrazione. Paolo, parlando al singolare, non sta parlando della sua esperienza personale, ma sta parlando della caduta dell’uomo nel giardino dell’Eden e quindi dell’esperienza di tutti noi di come il peccato si manifesta quando siamo messi di fronte alla legge. È vero, sta usando la prima persona singolare, ma questa è una forma retorica drammatica per farci immergere ed empatizzare profondamente con quello che lui sta dicendo, perché sta parlando della nostra esperienza come uomini nei confronti della legge, la quale non è cambiata da quando sono esistiti Adamo ed Eva.

Infatti notiamo che ci sono tantissimi parallelismi con la caduta dell’uomo in Genesi e anche Romani capitolo 5: Adamo ed Eva vivevano senza legge, senza comandamenti espliciti di Dio, ma il comandamento è venuto: “non mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male”. La loro concupiscenza li ha attratti e li ha sedotti (Giacomo 1 :14), il peccato “li trasse in inganno” come il serpente di Genesi, scelsero la disubbidienza e il peccato prese vita ed entrambi morirono, non solo di una morte fisica ma anche di una morte spirituale, cioè la separazione da Dio. Quindi anche in ognuno di noi, nella nostra esperienza umana, il peccato sfrutta la legge per acquistare forza per danneggiare il mio rapporto con Dio.

C’è stato un periodo a casa nostra, quando ci siamo trasferiti, che non avevamo specchi in casa. Ester era a Losanna per l’erasmus del dottorato. Un giorno sono andato a comprare uno specchietto da 5 euro minuscolo per specchiarmi il minimo indispensabile, per arrivare perlomeno presentabile al lavoro. Ma era davvero piccolo e per vedere i miei difetti, come per esempio i capelli scombinati, facevo davvero fatica. Ma quando abbiamo preso specchi veri da mettere in bagno, con tutte le luci fortissime, ecco che mi sono rivisto dopo tanto tempo per come ero veramente e con lo specchio più grande facevo molta meno fatica a capire cosa non andasse in me la mattina prima di andare al lavoro. Con la legge è la stessa cosa, essa è uno specchio che ci fa vedere per quello che siamo, cioè dei peccatori e Paolo ci dice che non avrebbe conosciuto la gravità del suo peccato se non si fosse confrontato con la legge, la quale, invece di santificare, mette in risalto ancora di più il peccato in noi.

Quindi, la legge è cattiva perché risveglia in noi il peccato? No: è il peccato in noi che produce la morte, ed è il fatto che noi abbiamo la carne. Questa carne è la nostra natura caduta tendente alla ribellione ed è il terreno di caccia del peccato per predarci.

Quindi Paolo ci sta dicendo che la legge di Dio in realtà è meravigliosa, come dice il salmista “7 La legge del SIGNORE è perfetta, essa ristora l’anima; la testimonianza del SIGNORE è veritiera, rende saggio il semplice. 8 I precetti del SIGNORE sono giusti, rallegrano il cuore; il comandamento del SIGNORE è limpido, illumina gli occhi.”, ma mette in luce il peccato di cui non ci rendevamo nemmeno tanto conto. Il problema è che, a causa della nostra natura peccaminosa, della nostra carne, che non è il corpo fisico ma è la nostra natura decaduta incline alla ribellione, non riusciamo ad attenerci alla legge. Perché la legge su di noi ha l’effetto contrario rispetto alla santificazione, rispetto alla giustificazione, rispetto al piacere a Dio.

Dal versetto 14 al 25 troviamo una lotta interiore molto feroce tra riconoscere che la legge di Dio buona, e che quindi dovrei ad attenermi ad essa, e una legge contraria cioè la legge del peccato. Cioè quella forza che non possiamo arrestare, quella condizione che non possiamo cambiare, che ci spinge a peccare e che aumenta la sua potenza proprio in presenza della legge santa, buona e giusta.

Non nascondo che vs 14-25 siano un testo estremamente dibattuto. Perché non si sa se qui Paolo parli di sé stesso al presente, quando scrive questa lettera, quindi da persona che ha conosciuto Cristo, che si è convertita, che cammina nello Spirito Santo, oppure di un credente che ha ricevuto lo Spirito ma che cammina ancora nella carne, oppure di una persona che non ha Cristo, non cammina nello Spirito, ma illuminata in qualche modo dalla legge si rende conto del proprio peccato.

Contrariamente al sentito comune su questo passo, io penso che qui Paolo non stia parlando di un credente, ma di un uomo senza Cristo che, pur riconoscendo la legge giusta ha un conflitto interiore che gli squarcia l’anima, perché vede che la legge produce in lui quello che non vorrebbe. E quindi Paolo, penso, qui stia usando ancora una figura retorica, parlando al singolare, esprimendo il pensiero di una persona che non ha Cristo. Questo uomo dice diverse cose rispetto alla sua condizione. Al versetto 14, questo uomo religioso, sinceramente convinto della bontà della legge, dice di essere carnale, dice di essere schiavo del peccato e dice di essere prigioniero della legge del peccato al versetto 23. E se questa personificazione fosse di un credente andrebbe in contrasto con Romani capitolo 6, dove abbiamo visto che Dio, in Cristo Gesù, ci ha fatti morire per risorgere con lui per essere liberati dal dominio del peccato, per non essere più schiavi del peccato. E in Romani 8 Paolo dice che se lo Spirito abita veramente in noi, noi credenti non siamo nella carne ma nello Spirito, perché chi è nella carne non può piacere a Dio.

E quindi qui abbiamo un uomo diviso, un uomo che riconosce con la propria mente che è giusto fare determinate cose o non fare determinate cose. Esattamente come l’uomo descritto in Romani 2, il quale ha dei pensieri che si accusano e si scusano a vicenda, come in un tribunale, che riconosce attraverso la bussola morale della legge, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ma troviamo un uomo che a causa della sua carne non riesce a piacere a Dio attraverso la legge e ogni volta che ci prova fallisce miseramente. Questo uomo diviso tra il pensiero giusto di quello che dovrebbe fare e quello che effettivamente fa, è incredibilmente sconfortato.

Quando Paolo dice che quest’uomo dichiara che non è lui che fa queste cose ma il peccato dentro di lui (versetto 20), non lo sta giustificando. Non sta dicendo: “Ah, quindi io non sono in grado di resistere a questa forza e quindi sono in qualche modo esente dal giudizio”, ma che, in accordo con la propria responsabilità morale personale davanti a Dio, frutto del fatto che siamo esseri moralmente responsabili delle nostre azioni e dei nostri pensieri, vive un dramma nella sua vita perché riconosce il bene della legge di Dio ma allo stesso tempo non è in grado di compierla. E non solo: il peccato si manifesta con ancora più vigore nella sua vita quando cerca di attenersi ad essa. Questo è il dramma di chi capisce l’esigenza della legge ma vive senza Cristo ed è il dramma di chi non è rigenerato dallo Spirito Santo.

Immaginate un uomo condannato per l’eternità a spingere un enorme masso su per una montagna. Appena raggiunge quasi la cima, la pietra rotola giù. E lui deve ricominciare ogni volta. Questo è Sisifo, nella mitologia greca. Una condanna assurda. Una fatica senza fine. Ma non è forse così che si sente chi prova ad adempiere la legge di Dio senza la potenza dello Spirito? Romani 7 ci parla di un uomo che vede il bene, lo desidera, ma non riesce a compierlo. E ogni volta che sembra avvicinarsi all’obbedienza, cade di nuovo. È un’esistenza frustrante, senza liberazione. Come Sisifo, quell’uomo non ha via d’uscita. A meno che non intervenga qualcuno da fuori.

Anche se penso che Romani 7 non sia il ritratto completo del credente in Cristo, che vive secondo lo Spirito, come Romani 8 spiegherà, un conflitto in noi tra la nostra carne che ci rende impotenti e la legge, continua ad esistere. Pensi a una cosa che dovresti fare e non la fai, oppure pensi che non dovresti fare una cosa ma la fai lo stesso. Questo conflitto deve continuamente risolversi in Cristo Gesù, alla croce.

Questo significa che il Vangelo non è solo per il nostro inizio nella fede, ma per i conflitti interiori di ogni giorno. Ogni volta che falliamo, ogni volta che sentiamo il peso di questo conflitto, siamo chiamati a tornare alla croce. Non per sentirci in colpa, ma per riscoprire la potenza del perdono di Cristo e che in Cristo questo conflitto è stato vinto.

Il capitolo 7, quindi, non si chiude senza speranza, ma anticipa la meravigliosa vita che aspetta chi crede in Cristo, vissuta nello Spirito: “24 Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? 25 Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore”. Non dice “cosa”, ma chi mi libererà. Perché non c’è metodo, né forza di volontà, ma una persona: Gesù. Grazie a Dio, per mezzo di Gesù Cristo, siamo liberati da questa condizione drammatica in cui, anche se volessimo piacere a Dio attraverso la legge, non ci riusciremmo.

L’unico modo per essere felici, al contrario della persona infelice del capitolo 7, è avere Cristo nella propria vita. L’unico che ha adempiuto la legge di Dio senza mai fallire e questa giustizia è stata applicata a noi.

Sempre in Romani al cap 10 Paolo dirà che “Cristo è il fine della legge, per la giustificazione di tutti quelli che credono”.

Cristo ha adempiuto la legge per noi, affinché fossimo giustificati davanti a Dio. Per questo, non dobbiamo più comportarci come se dovessimo cercare giustificazione o la perfezione attraverso la legge. Per noi gentili estranei al popolo d’Israele è facile riconoscere che non dobbiamo più circoncidere, che non dobbiamo più osservare un sistema sacrificale, che non siamo più vincolati a regole alimentari o a festività cerimoniali.

Ma è più difficile ammettere che, anche su altri aspetti morali della legge, non dobbiamo cercare di guadagnarci il favore di Dio. Lo riassumerei con il “comportarci bene”. Perché vuoi comportarti bene? È questa la domanda. È vero, esiste un codice morale al quale siamo chiamati ad attenerci, ma questo deve essere l’espressione del fatto che siamo già giustificati, e del fatto che lo Spirito Santo abita in noi, come dirà poi Romani 8.

Attenersi alla legge non è più un peso da portare per ottenere giustificazione o per meritare una vita santa: tutto ciò è frutto dell’opera di Cristo sulla croce, della sua vita perfetta e dell’opera dello Spirito Santo dentro di noi. Come abbiamo visto per l’uomo di Romani 7, è impossibile piacere a Dio attraverso la legge, ma è possibile attraverso il compimento della legge da parte di Cristo, e attraverso l’adempimento della legge in noi per mezzo dello Spirito.

Conclusione:

Come dice Paolo all’inizio del capitolo, noi siamo morti alla legge ma uniti a Cristo per sempre. La legge mette in luce il peccato in noi e a causa della nostra natura caduta e della legge del peccato in noi, noi non possiamo ottenere la giustificazione o una vita di santificazione. Ma grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore che ci ha liberati da questa condizione e ritornando all’inizio del capitolo, noi siamo stati separati dalla legge e uniti a Cristo. Ed è questa la condizione spirituale che deve dettare il nostro comportamento e le nostre vite.

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