Cineforum: Ghost In The Shell_ Dio nel transumanesimo

Regia: Mamoru Oshii
Soggetto: Ghost in the Shell di Masamune Shirow
Anno: 1995
Genere: animazione, poliziesco, fantascienza
Influenza culturale: Il film ha avuto una notevole influenza, per ammissione delle stesse registe, sul Matrix del 1999 dove sono presenti molte citazioni, ma anche su autori del calibro di Spielberg nel suo A.I intelligenza artificiale

Due importanti domande che sono state poste a seguito della visione e che hanno generato una ottima discussione sono state:

  • Cambierebbe qualcosa se la nostra coscienza venisse portata dentro ad un corpo cibernetico, o dentro ad un computer? Saremmo ancora umani?
  • Può la vita essere considerata tale solo perché si ha coscienza di sé, come afferma il Burattinaio?

 

Citazioni

“Quello che noi ora vediamo, lo vediamo come in uno specchio, in modo confuso…”

“Quando ero un bambino parlavo come parla un bambino, pensavo come pensa un bambino, ragionavo come ragiona un bambino, ma ora che sono diventato un uomo adulto ho finito con l’eliminare tutto quello che apparteneva al bambino “

“Qui ormai non  esistono più né il programma conosciuto come il burattinaio né la donna che si faceva chiamare maggiore”

Il film offre, un interessante visione futuristica che nel 1995 poteva sembrare solo fantascienza ma che oggi a ridosso dell’anno in cui il film è ambientato, non è poi così lontana.

Il titolo riprende un testo di filosofia, scritto da Arthur Koestler, intitolato “The ghost in the machine” e come tale opera si rifà molto su dualismo corpo-mente, ispirato da Cartesio, autore del famoso “Cogito Ergo Sum”, penso dunque sono.

Nella realtà del lungometraggio esseri umani e macchine sono tanto uniti che la differenza è quasi indistinguibile e la stessa protagonista ad un certo punto si domanda cosa renda un essere umano tale, se può diventare quasi totalmente una macchina e cosa lo differenzi da un programma.

Credo che questo film sia un po’ lo specchio di un futuro prossimo in cui il confine tra umano e cibernetico si assottiglierà sempre di più. Non penso che arriveremo mai all’avere corpi completamente cibernetici, come nel film, ma è indubbio che la tecnologia negli ultimi 100 anni ha accelerato in modo vertiginoso e cose che fino a 30 anni fa sembravano fantascienza oggi sono all’ordine del giorno.

Il mondo di Ghost in the shell, ambientato nella fine degli anni 20 del 2000, riflette l’ambiguità identitaria dell’umanità difronte alla rivoluzione tecnologica, un mondo in cui ciò che è non è quel che sembra, un mondo in cui il disegno divino, il corpo che Egli ci ha donato può essere cambiato quasi totalmente e arrogantemente definito migliore seppur legato a necessarie “messe a punto” definite un “piccolo prezzo da pagare”, diventando “proprietà anima e corpo” di un organo istituzionale come la sezione 9.

Nel film i cyborg come Motoko Kusanagi, la nostra protagonista, sono all’ordine del giorno, addirittura prodotti in serie tanto che lei stessa si sente intrappolata in un corpo che non è unico e ricerca tale unicità nelle sue esperienze e nei suoi ricordi dei quali però arriverà a dubitare in una totale mancanza di certezze verso la sua stessa umanità.

Queste cose possono essere tranquillamente riviste nel nostro mondo dove ormai da anni il “ritocchino” è stato sdoganato fino al cambio totale dell’aspetto esteriore che nell’ultimo decennio, soprattutto, ha investito le vite di molti infiammando dibattiti e pagine di giornali, talk show e social web su cosa fosse giusto e sbagliato, su come approcciarsi, persino su come parlare perché nessuno si sentisse offeso.

Qui come nel film siamo in mondo caotico, tecnologico sì, ma ancora legato all’industria, all’inquinamento e al consumismo che permangono senza cedere il passo ed anzi vengono rafforzati dalla bramosia umana e dalle altre necessità primordiali, come si può vedere dalle insegne pubblicitarie che compaiono un po’ ovunque.

Nella Bibbia si afferma più volte che l’umanità ha sbagliato, che non è degna di Dio (Romani 3,23, Efesini 2, 1-2, Matteo 15, 18-19 Geremia 17,9). Noi che eravamo stati creati per vivere in armonia con Lui, per adorarlo, amarlo, conoscerlo ma anche per essere amati e conosciuti da Lui abbiamo preferito, ognuno di noi, l’amore per noi stessi al Suo amore e vivere per noi e non per Lui.

Orgogliosi e arrogantemente egoisti abbiamo realmente portato problemi nel mondo e all’invito di Dio di tornare a Lui, la risposta non era certo un sì.
In una pagina molto nota della Lettera ai Romani riguardante l’empietà e l’ingiustizia degli uomini, Paolo vede la radice del degrado morale nello stravolgimento del rapporto con Dio, per cui, invece dell’adesione al vero Signore, viene prestato assenso a entità miserabili e ingannevoli: «mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti, e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile, di quadrupedi e di rettili» (Rm 1,22-23).

L’adorazione di realtà mondane non assume ai nostri giorni la forma dell’idolatria di culti come il vitello d’oro; ciò non toglie che l’abbandono del vero Dio – presentato addirittura come liberazione e vanto – determini l’assoggettamento a principi e direttive di menzogna e ingiustizia (Rm 1,25).

La mancanza del rispetto per Dio conduce infatti, secondo Paolo, a una confusione nel percepire il significato del corpo umano sessuato, con lo scatenarsi di passioni disdicevoli (Rm 1,24.26-27); e anche ad una società pervasa da disordine, violenza, ribellione e spietatezza (Rm 1,28-31). Fenomeni del genere, dolorosi e drammatici, contraddistinguono il nostro mondo, dove è messo in discussione il valore antropologico della differenza sessuale, dove si avverte la fragilità delle relazioni coniugali e il diffondersi di violenze domestiche.

Più in generale, si deve constatare il manifestarsi di egoismi e prepotenze che ingenerano guerre crudeli, oltre a produrre un dissesto del pianeta, con forme disastrose di povertà e segregazione.
Paolo conclude la sua disamina dicendo che «gli autori di tali cose» «non solo le commettono, ma approvano anche chi le fa» (Rm 1,32).

Il desiderio di bene, che deve animare ogni persona responsabile, sprona allora a “parlare”, per portare quella «verità» che è «soffocata nell’ingiustizia» (Rm 1,18), riscoprendo per così dire ciò che è l’uomo, nella sua dignità e nei suoi doveri, a partire dalle parole che ci vengono da Dio stesso che è venuto a salvarci, diventando uomo, assumendo su di sè i peccati del mondo e sacrificandosi, pagando il prezzo per liberarci, con un gesto di puro amore, da tutto ciò che ci condannava.

Nella scena della barca, una delle più importanti del film a mio avviso, viene detta dal maggiore Kusanagi una frase che descrive in modo semplice ma efficiente il più grande pregio ed il più grande difetto dell’umanità
“Quando un progetto è realizzabile qualunque tecnica è buona per portarla a compimento, è quasi un istinto fondamentale dell’uomo,”
Ed è vero, quando una tecnologia sembra a portata di mano, l’umanità si muove per realizzarla quasi sempre incurante delle conseguenze che questa potrebbe generale perché siamo arroganti vanesi e ci divertiamo a voler essere come Dio.

Così nel film nasce il burattinaio o progetto 2501, un programma creato a scopo bellico, per carpire informazioni, divenuto consapevole della propria esistenza e ribellatosi al controllo umano al fine di cercare il modo per divenire una vera e propria forma di vita.

Il burattinaio postula il suo discorso proprio su questa fragilità concettuale, speculando che l’avere coscienza di sè sia sufficiente per essere considerato un essere vivente. In Gost in the shell è questa l’unica definizione di vita rimasta, in un mondo in cui il concetto stesso di umanità è stato irreversibilmente modificato.

In questo mondo una persona come Togusa, che rappresenta la normalità, è visto come anormale e quasi schernito per il suo essere troppo umano ma allo stesso tempo considerato fondamentale da chi, come il maggiore, vive nell’incertezza di un corpo e di una mente che sente così lontani.

Ovviamente ciò non vuol dire che bisogna rinunciare alla tecnologia. Grazie ad essa, per esempio, possiamo sostituire un arto amputato con una protesi che imiti una mano vera o una gamba.

Il rischio, presentato anche nel film, è quello di volerci però sostituire a Dio, diventando quindi non più dei restauratori di quello che Dio ha creato, ma dei veri e propri creatori, dei piccoli dei che pensano di sapere meglio di Dio cosa è meglio per l’essere umano, sapere meglio di Dio qual è la forma di vita migliore, sapere meglio di Dio come definire i corpi, i generi, la sessualità, le relazioni.

Solo Dio è il creatore, perché solo lui sa perfettamente ciò che è buono, giusto, bello.

La conclusione del film prosegue su questa strada, con la fusione tra Motoko e il Burattinaio che crea una nuova entità.

Affrontandola dal punto di vista cristiano è impossibile non parlare di una critica finale all’eccesso umano, alle conseguenze che l’istinto e le azioni dell’umanità, se fuori controllo, possono generare.

Si può interpretare come un matrimonio tra uomo e macchina (dove viene vitato Corinzi 13) una totale antitesi di quella che è la vera unione tra uomo e Dio, un’antitesi che genera un nuovo essere, né Motoko né Burattinaio, ma soprattutto non umano, seppur dotato di una propria coscienza.

Il vuoto di Motoko, così come il vuoto di ogni essere umano, non può essere riempito da soluzioni umane.

Per diventare completi abbiamo bisogno di Dio e spesso, in un atto di arroganza, cerchiamo quella completezza lontano da Lui preferendo farci distrarre da ciò che ciò che abbiamo inventato invece che unirci con Colui che ci ha creato che desidera una relazione con noi e si è rivelato nel modo più chiaro possibile: diventando Lui stesso parte del mondo che ha creato, prendendo la forma della creatura, in Gesù. Dimostrando così di poterci capire e comprendere ed avere relazione con noi in modo perfetto!

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